Habemus Poop.
DA MEME VIVENTE A PAPA: COME TRUMP RIESCA A TRASFORMARE CONTENUTI SEMPRE PIÙ INDECENTI IN UNA COMUNICAZIONE COMUNQUE EFFICACE CHE PERSEGUE L'OBIETTIVO DI AUMENTARE IL CULTO DELLA SUA PERSONALITÀ.
Ciao,
venerdì scorso come tutti mi sono imbattuto nell'immagine più surreale degli ultimi tempi: Donald Trump vestito da Papa, con tanto di mitra, abito talare bianco e crocifisso nell'atto di impartire una benedizione. E proprio alla vigilia del Conclave.
Il tutto pubblicato sui suoi account ufficiali e su quello della Casa Bianca.
Nei giorni precedenti Trump stesso aveva dichiarato "Vorrei diventare Papa. Sarebbe la mia prima scelta. Penso che sarei un grande Papa. Nessuno lo farebbe meglio di me".
Quello che viene da domandarsi è: Donald Trump è folle oppure siamo noi che non riusciamo a comprendere il suo disegno?
Il Trionfo dell’Anti-Eloquenza.
C'è qualcosa di misterioso nell'efficacia comunicativa di Donald Trump. È come se avesse hackerato il sistema. Come se avesse scoperto una scorciatoia neurologica che bypassa completamente le aree del cervello dedicate all'analisi razionale.
La sua ultima provocazione, presentarsi come Papa Trump, è l'ennesima dimostrazione del suo approccio comunicativo che rompe gli schemi e sconfina spesso nell'indecente, ma che incredibilmente funziona. Una provocazione ancora più significativa se pensiamo che Trump, nato presbiteriano e oggi autoproclamatosi cristiano rinato, non è nemmeno cattolico.
Ma la cosa più sconvolgente è che questa spazzatura comunicativa, questa poop mediatica, produce risultati che la maggioranza dei comunicatori si sognano. Un culto vero e proprio, con tanto di devoti che gli attribuiscono caratteristiche messianiche.
Due settimane fa scrivevo di Papa Francesco e della sua semplicità come superpotere. Francesco usava parole semplici per esprimere concetti profondi, metafore immediate per veicolare significati complessi: "La Chiesa non è una dogana", "i confessionali non sono tintorie", "i pastori devono avere l'odore delle pecore".
Una semplicità che apriva porte, costruiva ponti, abbatteva barriere.
La comunicazione di Trump non è semplicità. È povertà. Non è un linguaggio essenziale frutto di una raffinata distillazione concettuale. È un vocabolario elementare, ripetitivo, ridotto all'osso. Le sue frasi sembrano generate da un'intelligenza artificiale a cui è stato imposto un limite di dieci parole per frase. I suoi discorsi sono costellati di interruzioni, digressioni, ripetizioni, e con quella sua caratteristica abitudine di lasciare pensieri a metà strada, come se il suo cervello fosse un browser con troppe schede aperte.
"Look, having nuclear… my uncle was a great professor and scientist and engineer, Dr. John Trump at MIT; good genes, very good genes, OK, very smart, the Wharton School of Finance, very good, very smart..." Questo è Trump che parla di armamenti nucleari. E se provi a trascrivere il suo discorso ti accorgerai che sembra il flusso di coscienza di un personaggio di James Joyce, ma senza la genialità letteraria.
Eppure funziona.
Mentre altri politici pagano fortune a consulenti per costruire frasi ad effetto, lui lancia insulti da portuale che diventano immediatamente virali. "Sleepy Joe", "Crooked Hillary", "Little Marco", "Lyin' Ted". Epiteti infantili che restano impressi e marchiano a fuoco i suoi avversari, creano immagini mentali impossibili da cancellare.
Se pensavi che queste tecniche funzionassero solo a livello verbale, la recente serie di provocazioni visive dimostra che Trump, o chi per lui, ha compreso come estendere questa logica comunicativa anche al linguaggio delle immagini. Oltre alla foto da Papa, ricordiamo il video AI su Gaza di febbraio, dove ha trasformato una terra devastata dalla guerra in un paradiso turistico con resort di lusso marchiati TRUMP GAZA, con statue dorate a sua immagine e somiglianza e danzatrici del ventre barbute. Una fantasia distopica che ha provocato indignazione internazionale ma che nei suoi sostenitori ha rafforzato l’immagine di leader visionario .
Un elemento chiave della comunicazione trumpiana è l'individuazione costante di nemici da combattere, una strategia che tra l'altro ha fatto proseliti anche a casa nostra, dove politici come Salvini e Meloni l'hanno adottata con efficacia.
Per Trump, il nemico può essere chiunque: i democratici, la stampa mainstream, gli immigrati, la Cina, ma soprattutto il famigerato Deep State, una presunta rete di burocrati e funzionari che complotta nell'ombra contro il popolo americano. Non è un caso che abbia affidato a Elon Musk, altro maestro della comunicazione provocatoria, la guida del Department of Government Efficiency (DOGE), con l'obiettivo dichiarato di "smantellare la burocrazia governativa", secondo molti analisti una vera e propria missione per smantellare i pilastri delle istituzioni federali.
L’obiettivo di comunicazione di Trump sembra chiaro: a ogni provocazione guadagna ore di copertura mediatica, domina il ciclo delle notizie e rafforza la sua presa emotiva su un elettorato che vede nelle sue "trasgressioni" un segno di autenticità.
La verità è che Trump ha capito una cosa fondamentale: nell'era dei social media e dell'attenzione frammentata, l'eloquenza tradizionale è un handicap. Le argomentazioni complesse non si trasformano in tweet condivisibili. I periodi subordinati non diventano meme. Le analisi sfumate non creano tifoserie.
Il suo Make America Great Again è un capolavoro di vaghezza strategica. Grande come? Grande quando? Grande per chi? Non importa. È un contenitore vuoto in cui ciascuno può riversare la propria personale nostalgia. È l'equivalente comunicativo di quelle t-shirt taglia unica che non stanno bene a nessuno ma vanno bene per tutti.
E poi c'è la ripetizione. Trump ripete le stesse frasi all'infinito, come un mantra. "Fake news". "Witch hunt". "No collusion". Ripetute così tante volte che alla fine acquisiscono verità per inerzia. È la tecnica pubblicitaria più antica del mondo applicata alla politica: la martellante ripetizione che si fa strada anche nelle menti più resistenti.
Un altro elemento della sua strategia comunicativa è la negazione sfacciata della realtà quando i risultati gli danno torto. Non importa se l'economia soffre, se l'inflazione cresce o se i sondaggi mostrano un calo di popolarità: Trump nega semplicemente i fatti e li sostituisce con la sua narrazione alternativa.
"Mai l'economia è stata così forte", dice mentre i mercati crollano. "L'inflazione è sotto controllo", proclama mentre i prezzi salgono. E i suoi sostenitori gli credono, perché la sua convinzione ha un effetto quasi ipnotico.
Il suo è un linguaggio binario: buono/cattivo, vincente/perdente, amico/nemico. Nessuna sfumatura, nessuna complessità. In un mondo che diventa sempre più intricato, questa semplicità manichea offre un sollievo cognitivo a chi si sente sopraffatto.
Trump non fa discorsi, fa spettacoli. Le sue pause, le sue smorfie, i suoi gesti sono parte integrante del messaggio. Prova a guardare un suo comizio senza audio, capirai comunque di cosa sta parlando. È un comunicatore corporeo.
La sua caratteristica di dire l'indicibile, di varcare di continuo i confini dell'accettabile, viene percepita dai suoi sostenitori come autenticità, rifiuto del politically correct visto come camicia di forza della verità.
Non esita nemmeno a strumentalizzare eventi drammatici, come dimostra la sua reazione all'attentato di Butler dello scorso luglio. Quando un proiettile gli ha sfiorato l'orecchio destro, ha saputo trasformare quell’episodio in un momento di forza narrativa. "Mi ha salvato Dio", ha dichiarato, mentre i suoi sostenitori parlavano di "miracolo divino" e "protezione dell'armatura di Dio". Un proiettile che gli sfiora l'orecchio diventa la prova che è "l'unto del Signore", scelto dall'alto per una missione speciale.
Trump ha intuitivamente capito che in un'epoca di sfiducia generalizzata verso le istituzioni, la goffaggine comunicativa è percepita come segno di autenticità. Più è impreciso, più sembra sincero. Più è sgrammaticato, più appare genuino. È il paradosso dell'Anti-Eloquenza.
Un altro contrasto illuminante con Papa Francesco: entrambi vengono percepiti come autentici, ma per ragioni opposte. Francesco era autentico perché parlava con semplicità pur avendo a disposizione l'intero apparato teologico. Trump appare autentico perché parla con povertà linguistica pur avendo frequentato la Wharton School. Il primo abbassava volontariamente il registro per raggiungere tutti. Il secondo sembra non essere in grado di elevarlo, e questo lo rende uno di noi agli occhi di chi diffida dell'élite intellettuale.
Questa comunicazione ha generato qualcosa che va oltre il consenso politico: un vero e proprio culto della personalità. Il movimento MAGA mostra i tratti di un fenomeno religioso, con migliaia di sostenitori che vedono in Trump non solo un leader politico, ma una figura messianica con la missione di salvare l'America.
I suoi comizi assomigliano a raduni religiosi, con preghiere collettive, imposizioni delle mani e una retorica che fonde nazionalismo e cristianesimo in una miscela esplosiva. È qualcosa che ricorda i culti millenaristi, con tanto di apocalisse imminente e promessa di salvezza.
Trump ha capito che le parole non servono più a spiegare la realtà, ma a crearla. Non sono più strumenti di persuasione razionale, ma di connessione emotiva. Non devono convincere, devono mobilitare.
Per gli esperti di comunicazione tradizionale, studiare Trump è come per i fisici newtoniani confrontarsi con la meccanica quantistica: un fenomeno che sfida le regole conosciute.
C'è una strategia precisa nel suo caos comunicativo, una tecnica nell'apparente mancanza di tecnica. Ha creato un linguaggio che non serve a informare ma a legare. Non a spiegare ma a rassicurare. Non a convincere ma a confermare.
L'ultima differenza cruciale tra Francesco e Trump: i target. Francesco parlava a tutti, credenti e non, progressisti e conservatori, giovani e anziani. La sua semplicità era inclusiva, universale. Trump parla esclusivamente alla sua base. La sua povertà linguistica è escludente, polarizzante, divisiva. Preferisce essere idolatrato dal 40% della popolazione piuttosto che rispettato dal 60%.
Ma che ci piaccia o no, Trump ha riscritto le regole del gioco. E chiunque voglia capire la comunicazione politica nel 2025 dovrà fare i conti con il suo inspiegabile successo. Anche quando indossa una mitra papale o si finge un miracolato dall'intervento divino.
Dalla Penna al Prompt.
Come forse sai già, Diego Fontana è un ottimo copywriter che nel 2017 ha scritto un importante libro per il settore della comunicazione: “Digital copywriter. Pensa come un copy, agisci nel digitale”.
Quello che non sai ancora, forse, è che è appena uscita una seconda edizione di quel libro, ma dato che in questi 8 anni il mondo della comunicazione è cambiato, più che di una seconda edizione possiamo parlare di un libro a sé.
Tanto che è cambiato anche il titolo: “Dalla penna al prompt: il copywriting oggi, tra creatività e tecnologia”.
Quella che è non cambiata è la casa editrice, sempre FrancoAngeli.
Puoi acquistare il libro direttamente sul sito di FrancoAngeli oppure su Amazon.
Nel frattempo, puoi leggere l’introduzione che Diego mi ha chiesto di scrivere per il quarto capitolo del suo libro, quello in cui parla dell’ideazione e della scrittura su diversi media e canali.
Ecco qui sotto il mio testo.
Il tennis e l’arte della scrittura creativa.
Sono sempre stato una persona incostante.
Fin da bambino ho iniziato mille attività e ne ho abbandonate mille e una. A otto anni vidi mio cugino giocare a tennis e dissi: “che bello!”. Un’affermazione che ha rovinato la mia infanzia. Mia madre, entusiasta del mio stesso entusiasmo, mi iscrisse a un corso di tennis per tre anni di seguito. E così ogni maledetto martedì e giovedì venivo maltrattato da un maestro reso collerico dalla mia totale mancanza di voglia e talento.
Con il passare degli anni la mia incostanza è stata l’unica costante della mia vita, eppure lavoro in pubblicità da più di trentacinque anni. A lungo non sono riuscito a spiegarmi perché questo mestiere fosse l’unica attività che continuo a fare da quando ho 23 anni.
Poi ho capito.
La professione di copywriter, e ancora di più quella di creativo pubblicitario, è un’attività in continua evoluzione che ti permette di affrontare sfide sempre nuove.
Ogni brief è diverso, ogni media è diverso, le regole e le tecniche sono sempre diverse. È un mestiere privo di monotonia, ideale per le persone duttili ed eclettiche.
Quando ero bambino i campi di tennis erano quasi tutti in terra rossa. Piano piano sono arrivati i campi in cemento. Poi è arrivato lo squash, il padel, il pickleball, il real tennis…
Oggi sembra che esistano migliaia di varianti del tennis. Sport diversi, vero, ma in pratica varianti della stessa identica cosa. Le similitudini sono tante: una racchetta, una pallina, una rete, un campo da gioco e dei punti da conquistare.
La scrittura creativa, oggi, è come il tennis, oggi.
Prima c’era solo il tennis tradizionale, l’ATL. Le campagne stampa e le affissioni sono il tennis sulla terra rossa. La televisione invece è la superficie più veloce e popolare: il cemento. Mentre la radio era ed è una superficie per specialisti, l’erba.
Con l’avvento del digital si sono moltiplicate le varianti. A volte la pallina può addirittura rimbalzare sulla parete di fondo. Il pubblico non è più passivo come nella pubblicità tradizionale: commenta, protesta, interagisce. Nonostante questo, la tecnica è simile in ogni disciplina e l’obiettivo è sempre lo stesso: fare punto.
A seconda del canale e del media bisogna cambiare leggermente l’impugnatura e i movimenti, ma lo scopo ultimo è sempre lo stesso. Prima però è necessario superare un ostacolo, la rete, che nel caso della comunicazione è l’attenzione del pubblico. Uno spauracchio che una volta era chiamato “telecomando” e oggi si chiama “scroll”.
Conoscere e padroneggiare le tecniche di ogni media è fondamentale, ma è ancora più importante avere la sensibilità di comprendere cosa piace e cosa interessa alle persone. Perché in questo mestiere è l’emozione che fa scattare il colpo vincente.
Questa capacità è un talento innato.
Una qualità imprescindibile per chi vuole fare il copywriter e il creativo pubblicitario.
Il libro di Diego Fontana è pieno di informazioni preziose e di esercizi davvero utili. Penso che rappresenti un’ottima scelta per chi vuole imparare le varie tecniche.
Il mio consiglio è di applicarsi e diventare bravi innanzitutto nei campi in terra rossa, stampa e affissione. La sintesi è la tecnica di base più importante. Perché chi è in grado di scrivere titoli brillanti e bodycopy efficaci non avrà problemi su nessun altro media o canale. Dopodiché, non bisogna sottovalutare l’attrezzatura, che per un tennista è la racchetta mentre per un copywriter è la scrittura. Non siate sciatti nella grammatica e nella sintassi.
Ma alla fine è altrettanto importante ricercare dentro di voi la capacità di comunicare alle persone. Veramente. Con onestà e toccando le corde emotive del vostro pubblico. Man mano che assimilerete la tecnica tutto diventerà istintivo, tranne il pensiero di come far interessare il pubblico a prodotti e servizi che magari non interessano neppure a voi.
Questa sfida sarà sempre nuova, a prescindere dagli anni di esperienza che avrete alle spalle. È la stessa sfida che accomuna tutti i media e i canali della comunicazione, la stessa che rende questo mestiere sempre diverso e pieno di fascino.
Chi sono.
Mi chiamo Mizio Ratti e faccio il copywriter da più di trent’anni.
Se questo non ti basta posso aggiungere che attualmente sono Direttore Creativo e Partner di due agenzie di comunicazione: Enfants Terribles e Hallelujah. Questi sono i miei ultimi spot pubblicitari: Lenor Capri, Unstoppables, Lenor Portofino.
Se poi hai un carattere stalker e vuoi saperne tutto su di me puoi trovare molto di quello che mi riguarda qui: linktr.ee/mizioblog
Oltre che su questa newsletter puoi seguirmi su YouTube dove sto realizzando una serie di interviste ai migliori creativi della pubblicità italiane. Il format si chiama THE CHREATIVITY DOGMA e puoi iscriverti al mio canale QUI.
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Coincidenze? Io non credo…