“Non ci sono più le Publistar di una volta…”
UNA RIFLESSIONE IN RISPOSTA A UNA DISCUSSIONE NATA SUI SOCIAL UNA DECINA DI GIORNI FA. INOLTRE, TI RICORDO CHE È ANCORA POSSIBILE PARTECIPARE A MENTOR FOR CHARITY 2.
Ciao,
piccolo promemoria.
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“Non ci sono più le Publistar di una volta…”
Una decina di giorni fa un articolo di Affari Italiani dal titolo “Pubblicità italiana mediocre, Pirella jr.: “Tanti impiegati, nessuna Publistar” ha scatenato una lunga polemica sui social.
Un post di Gerardo Pavone su Facebook ha raccolto più di 300 commenti con scambi fra professionisti del settore e l’intervistato, Duccio Pirella, figlio di Emanuele.
Lo scambio si è acceso finché a Duccio Pirella è stato dato dell’arrogante figlio di papà, soprattutto per una lettera che ha spedito nel 2016 a Repubblica in cui giustificava il parcheggio in seconda fila delle super car come la sua in via Montenapoleone perché danno lustro alla via.
Questo è l’incipit della lettera.
"Gentile Colaprico, ebbene sì, lo confesso. Sono uno di quei loschi figuri che talvolta parcheggia in Montenapoleone in sosta 'irregolare'. A volte il sabato vado a prendere un caffè da Cova e parcheggio la mia supercar davanti. Come me altri amici e appassionati. Non lo facciamo per avarizia, per non pagare il parking, ma perché è una sorta di tradizione che dà lustro alla via, fa sognare bambini e non, appassionati e meno appassionati”.
Non voglio indagare la personalità di Duccio Pirella, che non conosco ma a cui va riconosciuto lo spirito audace, quasi autolesionistico, con cui ha risposto a ogni singolo commento su Facebook, mi interessa invece trattare l’argomento delle PubliStar in pubblicità.
Prima però voglio aggiungere una cosa. Se questo articolo ha dato fastidio a tante persone che lavorano nel settore della pubblicità è soprattutto perché Duccio Pirella è stato strumentalizzato. L’intervistatore, che non cito per dargli alcuna visibilità, è stato bannato dal nostro ambiente a causa di accuse di molestie sessuali che gli hanno rivolto diverse ragazze.
Il suo nome è comparso in alcuni articoli che quest’estate hanno parlato del #metoo della pubblicità italiana e Selvaggia Lucarelli lo ha battezzato Pesce Piccolo. Inoltre, è stato espulso dall’ADCI per altri motivi non particolarmente edificanti. Insomma, non credo sia necessario aggiungere altro per capire che l’intervistatore è un soggetto in cerca di rivalsa nei confronti di un ambiente che in seguito a una serie di comportamenti ha preso le distanze da lui.
Anche se gli vanno riconosciute delle qualità. È incredibilmente coriaceo, e furbo, tanto che ha sfruttato un figliodi qualsiasi, Duccio Pirella in questo caso, ma se gli fosse servito avrebbe potuto scegliere anche il pronipote di Armando Testa o il cugino di Barbella, per fargli affermare cose che in realtà voleva dire lui.
Astuto com’è, ha approfittato del cognome prestigioso, del fatto che l’intervistato sia estraneo all’ambiente da tanti anni e non sappia niente di come vada oggi la pubblicità, né della reputazione che lui, l’intervistatore, si portava dietro.
La prova di quello che dico è il virgolettato nel titolo, “Tanti impiegati, nessuna Publistar”, perché mi sono letto l’intervista tre volte e Duccio Pirella quella cosa non l’ha mai detta, almeno nelle parti riportate in corsivo. Duccio Pirella ha elogiato la pubblicità del passato, quella in cui lavorava il padre, ha citato le PubliStar di una volta e di conseguenza ha affermato: “Tutto questo non c’è più”.
Tutto questo non c’è più. Un giudizio in cui io non ho colto l’intento di offendere nessuno. Il resto è stato amplificato dalle domande astute e provocatorie dell’intervistatore e dalla confusione che si genera nelle conversazioni sui social, specie su Facebook, dove nel tentativo vano di difendersi con personalità, Duccio Pirella ha iniziato a offendere e umiliare decine di professionisti del settore.
Dopo questa lunga premessa, torniamo al tema principale.
È vero che le PubliStar non ci sono più?
A mio parere l’affermazione di Duccio Pirella è vera, le PubliStar non ci sono più. Però quanto è attuale questa domanda? Di questo tema si discuteva già una decina di anni fa. Andrea Concato, ad esempio, aveva scritto un pezzo che parlava della scomparsa dei Condottieri Creativi (sinonimo di PubliStar). Di conseguenza, dire nel 2024 che le PubliStar non ci siano più è un’affermazione piuttosto banale e anacronistica, un cliché come quando si dice che “Non ci sono più le mezze stagioni” Molto più interessante è riflettere sul motivo per cui le PubliStar sono scomparse.
La prima PubliStar europea è stata Jaques Séguéla che nel 1979 ha pubblicato il famoso libro “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… lei mi crede pianista in un bordello”. Libro che nella prefazione riporta: (…) prima di Séguéla il pubblicitario era considerato un tecnico, un serio professionista, mentre dopo di lui acquista il rilievo di nuova e imprevedibile figura dell’attuale panorama culturale. Un terminale nervoso che sente le vibrazioni di una società che comunica, vive di immagini e di segni. Un poeta, a suo modo, che dà alle merci la valenza dei sogni (…)
Séguéla stesso scrive: (…) questo libro è stato scritto da Ségué per Séguéla. È un libro di memorie. In memoria di me stesso. (…) A forza di fare la gloria di caffè, degli olii, delle automobili o dei detersivi, i creatori di celebrità sono frustrati dal fatto di essere meno conosciuti dei prodotti che lanciano. Vi parlerò dunque del prodotto che conosco meglio: me stesso (…).
Si può dire che Séguéla si sia inventato il personal branding.
Trovo particolarmente indicativo questo passaggio (…) i creatori di celebrità sono frustrati dal fatto di essere meno conosciuti dei prodotti che lanciano (…)
È un ragionamento centrale in questa discussione.
Le PubliStar erano fatte così, grande talento, fascino e personalità, ma soprattutto con un egocentrismo tale da anteporre la propria immagine a quella dei brand che pubblicizzavano. Non a caso tanti creativi dell’epoca erano ex sessantottini che intimamente disprezzavano la pubblicità e il capitalismo ma alla fine avevano trovano un remunerativo compromesso con la loro coscienza.
Una volta che abbiamo capito cosa si intende per PubliStar, resta comunque sospesa la domanda: perché oggi non ci sono più?
Perché mancano gli egocentrici in pubblicità? No davvero.
I motivi sono molto più complessi, io ne ho individuati almeno due.
Il primo è che oggi le aziende apprezzano di più le persone che vendono i prodotti anziché quelle che vendono se stesse. La dimostrazione di questa tesi è Bruno Bertelli. Nonostante abbia vinto più premi di Gavino Sanna, Armando Testa ed Emanuele Pirella messi insieme, nessuno pensa a lui come a una PubliStar. Eppure ha raggiunto una carica a cui nessun creativo italiano si è mai avvicinato prima d’ora, CCO di Publicis Worldwide e, insieme a Cristiana Boccassini, ha creato un’agenzia che oggi è considerata uno dei più brillanti hotspot creativi al mondo. A Milano. In Italia. Un traguardo che nessuna PubliStar degli anni Ottanta ha mai lontanamente raggiunto.
Ma potrei citare anche altri due creativi super premiati come Luca Lorenzini e Luca Pannese che sono riusciti ad aprire la loro sigla, SMALL, addirittura a New York. Oppure Andrea Stillacci che ha conquistato la Francia con la sua agenzia Herezie.
Il secondo motivo è che nella vita esistono le mode e i trend. Negli anni Ottanta la pubblicità era una novità, di grande tendenza, il formato dei 30 secondi aveva appena sostituito Carosello e anche i cretini potevano entrare in agenzia e avere successo. Con questo non voglio dire che tutti quelli che lavoravano in pubblicità negli anni Ottanta fossero cretini, ma non lo sono nemmeno quelli che ci lavorano adesso, anzi, oggi il lavoro di pubblicitario è incredibilmente più difficile perché si sono moltiplicati i media e le competenze che un creativo deve avere.
Inoltre, l’interesse del business e del costume si è spostato da un’altra parte. Se uno oggi vuole finire sulla copertina di un giornale è meglio che faccia il cuoco oppure l’influencer.
È evidente che l’affermazione che non esistano più le PubliStar non è né originale né arguta. È solo una provocazione. Una provocazione scientemente messa in bocca a un povero (nonostante la sua Supercar) intervistato da parte di uno scaltro intervistatore.
Aggiungo una nota personale. La nostalgia per i tempi andati è sempre stato il sentimento dei perdenti. È vero che prima in pubblicità si guadagnava di più, che si avevano più soddisfazioni, che eravamo di più sotto i riflettori, ma parlare del futuro guardando al passato è un esercizio sterile, come paragonare il calcio degli anni 60 con quello di oggi. Puskas era un fenomeno tecnico, dicono, ma oggi non potrebbe giocare fra i professionisti perché correva a cinque all’ora.
L’agenzia Pirella Göttsche era famosa per i suoi bellissimi annunci stampa, ma se esistesse ancora oggi dovrebbe dimostrare la stessa bravura sui Piani Editoriali dei social. Auguri.
I tempi cambiano, e se in pubblicità non ci sono più le PubliStar è perché non ci possono più essere, perché il mestiere attuale richiede un know how così ampio e tanta elasticità mentale che una persona piena di ego non potrebbe avere.
Ho letto che l’affermazione “Tanti impiegati, nessuna PubliStar” è suonata nell’ambiente come “Il Re è Nudo”. Allora diciamo un’altra verità scomoda: siamo sicuri che i pubblicitari di una volta fossero tutti dei geni? Io ho sempre pensato che gli unici veri geni siano stati Armando Testa e Maurizio D’Adda, i soli che siano riusciti a fare qualcosa di originale e brillante anche al di fuori del settore.
Sbaglio?
Può darsi, ma ti chiedo, chi delle grandi PubliStar di un tempo, così celebrate dall’intellighenzia dell’epoca, ha scritto un romanzo che sia rimasto nella storia della letteratura italiana o realizzato un’opera battezzata come capolavoro?
E dato che stiamo giocando a spogliare il Re, possiamo anche dire che la striscia “Tutti da Fulvia sabato sera” di Pericoli e Pirella era…
Oppure che il famoso annuncio di Jesus Jeans non è così geniale come ci ripetiamo da sempre? È solo un culo fasciato dentro un paio jeans che, specie oggi che stiamo maturando una maggiore sensibilità per la parità di genere, nessun direttore creativo con un briciolo di criterio farebbe uscire.
E il titolo “Uoma” per Amica? Ti piace? Cerca di essere onesto, ti piace davvero?
Naturalmente anche questa è una provocazione.
Emanuele Pirella è stato un grande copywriter, uno dei copywriter italiani migliori di sempre, ma ogni pubblicitario va valutato nel periodo in cui ha lavorato. È una cosa stupida paragonare due periodi così distanti e differenti.
Lasciamo il passato dov’è, rispettiamolo ma non idealizziamolo nemmeno. Anche perché molti dei problemi di cui soffre oggi la pubblicità italiana derivano dalle scelte che le PubliStar hanno fatto negli anni d’oro.
Perché l’Italia non ha un network internazionale di comunicazione? Eppure quelli erano tempi in cui tutto era possibile, la globalizzazione era ancora lontana da arrivare. E perché a parte Armando Testa sono spariti tutti i nomi delle PubliStar dalle sigle delle agenzie (Pirella compresa, che oggi si chiama MullenLowe)? Se davvero erano PubliStar mitiche e irraggiungibili, non conveniva forse tenere i loro nomi in sigla come quelli di Ogilvy o di Bernbach?
Io non rimpiango le PubliStar. Sono stati imprenditori pessimi e poco lungimiranti. L’eredità peggiore che ci hanno lasciato è la mancanza di valore al lavoro creativo. Dato che ai tempi era più profittevole prendere una percentuale sull’investimento media, anziché un fee creativo, hanno introdotto una cattiva consuetudine che ancora oggi noi poveri impiegati dell’advertising facciamo fatica a scardinare.
E non mi preoccupo del fatto che la mia figurina non finirà nell’album Panini delle PubliStar. Sono preoccupato invece delle derive che sta prendendo il nostro settore.
La prima è la deriva finanziaria.
Ogni giorno nascono gruppi e società che non sai da dove arrivino ma che vantano fatturati a sette zeri e comprano società e persone come se fossero cose al supermercato. Incontri i loro manager, cerchi di capire che pubblicità o progetti abbiano fatto, qual è la loro cultura di comunicazione, ma non parliamo la stessa lingua, loro sanno discutere solo di Ebitda.
La seconda è la perdita di competenza della nostra società.
Le PubliStar parlavano a un pubblico muto, che non poteva esprimersi né reagire, mentre oggi, come diceva Umberto Eco, “i social hanno dato il diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività”.
E purtroppo quello è stato solo l’inizio.
Perché oltre a parlare, oggi tutti possono fare tutto. Basta un corso online di dieci minuti per diventare copywriter, basta fotografarsi e pubblicare tutto il giorno su Instagram per vantarsi di essere influencer, basta avere un’idea stupida per diventare creator.
La terza cosa è il ricambio generazionale.
Se il nostro mestiere non è più affascinante come quello ai tempi delle PubliStar, chi vorrà ancora lavorare in advertising? E come farà la Gen Z, fragile e sensibile com’è, ad affrontare le frustrazioni e le difficoltà sempre più numerose nel nostro mestiere?
Last but not least, come dicono quelli fighi, che impatto avrà l’Intelligenza Artificiale?
Vedo tutti contenti ed eccitati dell’avvento di questa tecnologia, ma quanti posti di lavoro toglierà soprattutto alle professionalità medio basse della comunicazione? E tutte le figure che saranno spazzate via da un’innovazione che non è mai stata così veloce, che fine faranno? Tutti a fare gli Influencer o i Creator?
Non esistono più le PubliStar?
Bella scoperta.
Noi poveri impiegati della creatività (io poi non trovo la parola “impiegato” offensiva dato che il mio primo lavoro è stato al porto della Spezia) non saremo PubliStar, vero, ma abbiamo un compito più importante, anche se ingrato: salvare questo mestiere, e in tempi molto più difficili di quelli di quarant’anni fa.
mizio
Torna la spassosa rubrica GLI SLAVE (un’altra storia vera) di Sara Palmieri.
Ti ricordo che puoi seguire Sara sul suo profilo Facebook, oppure su LinkedIN.
Fresh Stuff.
Dopo la campagna di circa un anno fa, di cui ti ho parlato esaurientemente nella mizionewsletter TOP 22 OF 22 e vincitrice di un Grand Prix nella sezione Outdoor ai Cannes Lions, l’agenzia Uncommon esce con questa affissione minimalista sempre per British Airways. Cosa ne pensi? ti piace più questa o quella precedente?
Sempre di Uncommon Creative Studio la campagna Everyday per IAG Loyalty’s Avio, il servizio loyalty dell’Executive Club di British Airways.
Regia di Sam Walker e produzione di Pulse films.
As seen on the Terrasse è il film di Perrier ideato da Ogilvy Paris.
Lola MullenLowe firma il commercial The Autograph per Persil.
E infine l’ultimo film di Apple watch.
Come sempre, ti ricordo che puoi guardare tutti i film presenti in questa newsletter comodamente sul mio canale YouTube, dove puoi vedere anche tutti i film di quest’anno compresi quelli del Super Bowl LVIII.
La playlist di questa edizione è la mizionewsletter #70.
Chi sono.
Mi chiamo Mizio Ratti e faccio il copywriter da più di trent’anni.
Se questo non ti basta posso aggiungere che attualmente sono Direttore Creativo e Partner di due agenzie di comunicazione: Enfants Terribles e Hallelujah. Se poi hai un carattere stalker e vuoi saperne tutto su di me puoi trovare molto di quello che mi riguarda qui: linktr.ee/mizioblog
“Perché mancano gli egocentrici in pubblicità? No davvero.”
Mi sono ribaltata dalle risate!
"perché il mestiere attuale richiede un know how così ampio e tanta elasticità mentale che una persona piena di ego non potrebbe avere" vogliamo stamparlo in grande? Una delle migliori NL ! Grazie