Piovono pesche.
DELLO SPOT ESSELUNGA HANNO PARLATO TUTTI, MA PROPRIO TUTTI. C'ERA BISOGNO DI UN ALTRO PUNTO DI VISTA? IL MIO? DATO CHE SCRIVO UNA NEWSLETTER SULLA COMUNICAZIONE PENSO CHE NON POTESSI ESIMERMI.
Ciao,
una piccola nota personale: questo giovedì non avevo in programma di uscire con la mizionewsletter, perché da domani sono in vacanza fino a lunedì e non volevo sbattimenti sui social. Devi sapere infatti che sabato è il mio compleanno e che mia moglie fa di tutto per allontanarmi dalla civiltà in quella data. Il fatto è che odio compiere gli anni e quel giorno sono veramente intrattabile, tanto che Paola mi toglie tutti i device elettronici perché se ho anche solo un telefono o un social in mano rischio di perdere amici, soci, clienti e dipendenti. So che penserai che odio quel giorno perché ho paura di invecchiare, ma non è così: la vecchiaia è la mia condizione ideale perché di natura ho quel carattere intollerante che le persone normali sviluppano solo dopo i settant’anni. E odio il mio compleanno da quando ho 7 anni. L’anno prima no, ma solo perché a 6 anni mi hanno regalato il Subbuteo.
Fine della parentesi personale (aggiungo solo che non è una scusa per ricevere gli auguri, no, odio chi mi fa gli auguri).
Avevo una forte resistenza a scrivere del film Esselunga, perché è una pubblicità polarizzante che ha toccato corde emozionali profonde nel pubblico e io sono troppo schietto nelle opinioni, quindi è possibile che dopo questa release molta gente si cancelli dalla newsletter. Pazienza. Esprimerò un parere professionale, non sociologico, culturale o vattelapesca quant’altro. Dato che lavoro in questo settore da più di trent’anni e che faccio divulgazione con il mio blog dal 2006 penso di avere il diritto e la competenza per farlo. Più di molti altri. Ma non per questo ho la presunzione di esprimere una verità assoluta. È il mio parere, professionale e personale. Se non sei d’accordo puoi scrivermi, commentarmi, criticarmi e anche cancellarti da qui, fai quello che giudichi giusto. Ti avverto però che qualsiasi cosa tu mi scriva, io, per i motivi che ti ho spiegato sopra, non ti risponderò prima di martedì.
Concludo dicendo che questa mizionewsletter è ancora più ricca delle altre perché troverai anche i contributi di Marco Carnevale, Riccardo Garavaglia, una rubrica tutta nuova di Sara Palmieri, un piccolo commento rubato a Dario Diaz, e infine uno scambio di battute con Luca Lorenzini di Small, uno degli autori della campagna Esselunga. Insomma, Piovono Pesche.
Ah, la gente allora guarda ancora la réclame.
Non sono un fan del pensiero “purché se ne parli”, anzi, trovo che come concetto sia una cazzata, ma credo che ci sia differenza fra una campagna criticata da tutti, come quella di Open to Meraviglia di cui ho parlato la settimana scorsa, e quella di Esselunga che ha emozionato molti ed è stata stigmatizzata da molti altri.
Uno degli ultimi post che ho scritto parlava dello scadimento dei social, ma mi sono dimenticato di parlare del fenomeno della ShitTail. Ai tempi del viral esisteva la LongTail che rappresentava la vita di un contenuto sui social, nel senso che all’inizio c’era un’impennata di attenzioni, commenti o condivisioni, ma con le settimane successive queste attenzioni calavano fino a sfumare. Mentre oggi si dovrebbe parlare piuttosto di ShortTail perché la stragrande maggioranza dei contenuti dura sui social poche ore. C’è poi un fenomeno qualitativo che potremmo definire ShitTail, in quanto dopo la reazione istintiva a un contenuto arrivano quelli che per farsi notare devono fare i bastian contrari e dire l’opposto, oppure quelli che addirittura si scandalizzano. La ShitTail potrebbe essere rappresentata come uno tsunami di merda: prima c’è il momento di spontaneo stupore, quando il mare si ritira, ma è solo calma apparente perché in agguato c’è l’ondata di merda che sta per travolgere tutto.
È la cosa che è successa alla campagna Esselunga. Subito dopo che è uscita sono andato a vedere su Twitter (ok, adesso si chiama X, lo so), ed era Trend Topic. Trend Topic, ok? Non ricordo un’altra campagna italiana che ultimamente sia finita Trend Topic. Se te ne ricordi una, scrivimi. Comunque, era Trend Topic e i giudizi erano tutti positivi, del tipo: “non sto piangendo, mi è solo caduta Emma in un occhio”. Anche su Facebook il mio feed era pieno di complimenti ed emozioni. Poi però sono andato a dormire e il giorno dopo è cambiato tutto: sono arrivati i bastiancontraristi e gli scandalizzati.
È indubbio che la campagna di Esselunga sia polarizzante, ma va detto anche che ha aperto un potente dibattito in Italia. Questo significa che è una campagna rilevante, qualità molto rara per la pubblicità italiana di questi tempi, e questo, qualsiasi cosa tu pensi di questo spot, è un punto a suo favore.
Ogni campagna va giudicata innanzitutto dal concetto che esprime (potrei dire insight, che fa parte del nostro gergo professionale, ma ho letto che a molti dà fastidio perché lo dicono i pubblicitari che se la tirano), comunque quello di Esselunga è: NON C’È UNA SPESA CHE NON SIA IMPORTANTE.
Giudizio professionale: è un concetto potente, originale, pieno di contenuti valoriali per il brand, il quale sta dicendo ai suoi consumatori che la spesa da Esselunga non risponde semplicemente a un bisogno primario (procurarsi del cibo) ma anche a uno emotivo. Chi ha abbastanza esperienza come creativo sa che quello del food è uno dei settori più difficili perché devi convincere le persone a mettersi in bocca delle cose. E il settore GDO è più difficile ancora perché risponde a dinamiche ferree di vendita, tanto che difficilmente le comunicazioni riescono ad andare oltre il territorio della convenienza (se vuoi puoi leggere un post su Facebook di Marco Carnevale che fa una specie di competitive review delle insegne italiane).
Lo spot Esselunga non solo esprime un concetto assolutamente nuovo e rivoluzionario per la GDO, ma lo fa verbalizzando una doppia negazione: NON C’È UNA SPESA CHE NON SIA IMPORTANTE. E come dice Paola, (sì, sempre mia moglie, che io chiamo la Regina della GDO per l’esperienza che ha nel settore) per infrangere il dogma “non si usa la negazione in pubblicità” bisogna essere davvero coraggiosi. Secondo punto a favore.
Il concetto, che come ti ho detto giudico potente e originale, viene espresso con il registro emotivo, e fin qui nessun problema, ma i creativi decidono di mettere in scena una famiglia separata. È proprio da questa scelta che nascono tutte le discussioni sui social. Discussioni comprensibili, ci mancherebbe, ma se volessimo riassumere la sinossi del film scriveremmo: “una bambina prende una pesca all’Esseluga perché le piacerebbe rivedere insieme i suoi genitori ”. È l’idea del film, una frase semplice, di una riga, perché le buone idee si raccontano in una frase. Tutte il resto sono sovrastrutture emotive che per l’amor del cielo, ognuno ha il diritto di esprimere, ma si tratta pur sempre di interpretazioni assolutamente soggettive e personali.
Sempre nell’ultimo post che ho scritto ti ho svelato un mistero: la pubblicità rompe il cazzo. Ora te ne svelo un altro: lo scopo della pubblicità è quello di vendere e non gliene frega niente di lanciare messaggi sociali.
Il problema è che per vendere delle cose a della gente sfrutta dei registri narrativi. Quello che preferisco è quello ironico, scomparso purtroppo dalla circolazione perché in Italia tutti ormai si prendono troppo sul serio, ma uno dei più utilizzati è quello emotivo. Quindi, se trovi che questa campagna sfrutti le emozioni della gente non prendertela con la campagna Esselunga, perché svolge bene il suo compito, ma prenditela piuttosto con tutta la pubblicità.
Non bisogna dimenticare che il nostro mestiere non è poi così nobile, che siamo gli eredi degli imbonitori, anzi, va ricordato che come direbbe Bennato non bisogna prendere le nostre campagne troppo sul serio: “sono solo canzonette”. Oppure, se vuoi un riferimento più alto c’è quello che diceva Raymond Chandler: “c’è più spreco di intelligenza in un’agenzia di pubblicità che durante una partita di scacchi”.
Voglio dire che se pensi che dietro uno spot ci sia un messaggio più profondo del tentativo di vendere un prodotto o un servizio, ecco, significa che vuoi vedercelo tu.
Un’altra cosa che forse non sai è che la pubblicità non crea né fenomeni né tendenze, ma li segue, sempre, gli va in coda. E siccome lo scopo è quello di vendere merci a più gente possibile sfrutta gli stereotipi, oppure gli archetipi. Perché gli stereotipi sono comprensibili da tutti e arrivano a più gente possibile, il più velocemente possibile.
La differenza tra una pubblicità e l’altra è come questi stereotipi vengono utilizzati. C’è chi li usa come si userebbero le banche immagini e chi invece riesce a ideare campagne memorabili che rimangono nel tempo.
La famiglia è da sempre uno degli stereotipi più importanti per gli italiani, tant’è che la famiglie perfette di Barilla e di Mulino Bianco sono rimaste indelebili nell’immaginario collettivo per quasi quarant’anni. Questo spot ad esempio è del 1986.
Ma com’è cambiata la famiglia dal 1986?
Nella realtà il modello di famiglia è cambiato moltissimo, ma in comunicazione non è cambiato affatto, fino a qualche sera fa quando è uscito il film di Esselunga in TV.
Se sei una persona che lavora nel settore, sai che non è la prima rappresentazione di una famiglia separata in comunicazione, perché anni fa nell’ambito della campagna WHERE LIFE HAPPENS il brand Ikea sviluppò un film, molto bello secondo me, in cui un bambino si divideva tra il papà e la mamma.
Ma è la prima volta che un brand italiano lo fa. E anche se a qualcuno questa cosa può apparire tardiva, in realtà è una cosa rivoluzionaria che fa evolvere il concetto di famiglia e rende poco credibile il vecchio stereotipo papà+mamma+bimbo+bimba.
Molti hanno scritto che anche quello della famiglia separata è ormai uno stereotipo. Vero, ma uno stereotipo molto più contemporaneo di quello della famiglia felice.
Altri hanno detto che invece gli stereotipi bisogna romperli. Sicuramente queste persone non hanno letto quello che ho scritto sopra, e cioè che la comunicazione per funzionare ha bisogno di lavorare sugli stereotipi. Far cambiare la mentalità alla gente non è un obiettivo della pubblicità, perché come dicevo segue le tendenze, ma piuttosto dovrebbe essere la missione della migliore politica o della società civile. E comunque anche per superare lo stereotipo della famiglia separata a discapito di una famiglia ancora più contemporanea, che ne so, allargata o eterogenea, bisognerà trovare qualcuno che abbia il coraggio di fare una comunicazione dirompente come hanno fatto i creativi di Small. E attenzione: non per un brand sconosciuto per iscrivere il progetto ai Cannes Lions, ma per un brand nazionale e importante come Esselunga.
C’è un’altra cosa incredibilmente innovativa in questo film: racconta la verità. Ed è una cosa rivoluzionaria perché la pubblicità non lo fa mai. La pubblicità classica racconta di donne che nei giorni del ciclo si buttano con il paracadute, di uomini che si siedono sul sedile di un’auto e improvvisamente dimenticano quell’insicurezza che è il motivo per cui hanno comprato un fuoristrada per andare in ufficio, oppure di gente sovrappeso che con le scarpe che ti danno le giuste motivazioni possono correre una maratona senza che gli venga un infarto. E alla gente questa cosa piace. Piace questo lifting della realtà, perché la verità il più delle volte fa male e fa schifo, perché non tutti hanno le spalle larghe per affrontarla. Per questo raccontare la verità in pubblicità richiede un coraggio incredibile.
E la verità è che una bambina può soffrire della separazione dei genitori, e che è naturale che voglia rivederli insieme. Ma non solo, la cosa per cui giudico questa campagna geniale è che non c’è happy ending. La pesca non è servita per rimettere insieme la coppia ma solo per far sentire meglio la bambina. Perché la finestra è chiusa. E non si riapre. Probabilmente non si riaprirà mai. Ma chissenefrega di chi è la colpa e cosa succederà domani, l’importante è che Emma sia felice grazie alla pesca.
Comprendo che la rappresentazione della verità possa risultare dolorosa, perché ci sono coppie che stanno convivendo con le difficoltà e i sensi di colpa della separazione, ma sono sofferenze che esulano da uno spot pubblicitario. Perché la verità è dolorosa non solo in pubblicità, è difficile anche nella vita quotidiana: se non dicessimo delle bugie bianche ogni tanto saremmo tutti senza amici. E probabilmente separati :-) Allora la reale domanda da porsi è: vogliamo che la pubblicità continui a venderci l’ipocrisia o pensiamo che qualche volta possiamo sopportare la verità?
Come creativo non ho dubbi. Lo dico ripensando allo spot di Conad del Natale 2017.
Sono felice che il film Esselunga sia uscito, perché non può che alzare l’asticella creativa costringendo agenzie e committenti a concentrarsi su idee più contemporanee e autentiche. Oltre che la qualità dell’execution, perché trovo il film ben girato e ben interpretato, quindi complimenti anche a Indiana Production e al regista Rudi Rosenberg.
Fa specie solo che per fare un salto del genere sia stato necessario coinvolgere due creativi italiani che si sono trasferiti a New York, come se per rompere un tabù e avere il coraggio di realizzare una pubblicità rilevante fosse necessario vedere il nostro paese da fuori.
Ho chiesto a Luca Lorenzini, copy della campagna, cosa ne pensa di quello che sta succedendo. Ecco cosa mi ha risposto.
“Ci aspettavamo che ne avrebbero parlato, ma quello che sta succedendo ci lascia senza parole. Abbiamo fatto in modo che la storia restasse aperta per dare la possibilità ad ognuno di dare la propria interpretazione. Ma in totale sincerità, non pensavamo che ci fossero così tante interpretazioni possibili.”
Ma se vuoi conoscere il suo pensiero in maniera più estesa puoi leggere l’intervista che ha rilasciato a Repubblica. Ne estraggo solo un piccolo stralcio che conferma le cose che ho scritto io sopra.
“Forse a questa storia si sta dando una lettura con un messaggio più profondo di quello che volevamo. Tutti messaggi importanti, ma il nostro, alla fine, era semplicissimo”.
Però sui social ognuno ha detto la sua. Appunto.
Non molti la pensano come me, sono quelli più pragmatici, con più anni esperienza alle spalle. Cito due contributi che ho letto nel gruppo Facebook Un Posto al Copy. Quello di Marco Carnevale, che esprime esattamente quello che penso anch’io, e un commento sempre nello stesso gruppo di Dario Diaz.
Io consiglierei caldamente di privilegiare - almeno in una sede come questa - le considerazioni "tecniche" rispetto a quelle più generiche sulle riserve sui "buoni sentimenti" o simili. Siamo (anzi, sono: i ragazzi di Small) alle prese con un marchio della grande distribuzione fortemente centrato sul cibo, a differenza di Coop che almeno con i suoi iper fa un gioco commerciale più esteso e più complesso. E questa campagna secondo me fa un piccolo (grande?) miracolo. Che va al di là del singolo soggetto perché in realtà è centrato - come al solito - sulla copyline. Una frase che contiene una bomba ad alto potenziale: un insight molto ma molto significativo. Ogni cibo è destinato a nutrire non solo un organismo, non solo il piacere palatale, ma il circuito incandescente dello scambio simbolico ed affettivo che nella nostra cultura vede il cibo stesso come fulcro e detonatore dei rapporti sociali, familiari, amicali. E' questo che azzera in un secondo le decine e decine di milioni investiti da tutta la concorrenza - nonché dalla "vecchia" Esselunga - in comunicazioni inerti e irrilevanti che affidano tutta la loro efficacia (?) alla ripetizione poiché non sedimentano niente di rilevante e memorabile nella testa di nessuno. E' questo che accende sull'intero comparto un'enorme scritta lampeggiante che dice GAME OVER, e fa ripartire il gioco da zero con Esselunga in pole position con duecento metri di vantaggio su tutti gli altri - sì, più o meno nel punto della pista da cui parte Ikea rispetto a tutti i suoi concorrenti. Ci sono echi "barilliani"? Direi di sì, e non a caso. Anche "Dove c'è Barilla c'è casa" aveva sbattuto sul tavolo, al di là dei lacrimoni e dei gattini, un insight contiguo, di pari peso e di similare ambizione; e anche Barilla si confrontava con un mercato che non faceva altro che mostrare famigliole festosamente masticanti e massaie ansiosamente focalizzate su pentole messe a bollire. E senza quella campagna quella marca non sarebbe arrivata fino a oggi con l'aura e il prestigio che sappiamo, che sopravanzano di gran lunga il mediocre, mediocrissimo livello qualitativo del prodotto. Insomma, per quanto mi riguarda, chapeau. sì.
Marco Carnevale
Poi naturalmente ci sono migliaia di giudizi opposti.
Se vuoi un punto di vista contrario al mio, ma allo stesso modo interessante, io fossi in te leggerei l’articolo che Giovanna Cosenza ha scritto sul Fatto Quotidiano.
Pesche, Purpose e Statue Equestri (di Riccardo Garavaglia).
solo in Italia poteva aver successo il purpose marketing di destra.
credo sia il primo caso al mondo ed è la cosa più interessante capitata nell'adv nostrano dopo le chat dei minorati mentali di WAS.
orde di creativi progressisti stanno sbiellano su twitter e linkedin.
ci spiegano perché lo spot di esselunga non funziona.
ora, volendo, io stesso potrei smembrare quei 90" in maniere che neanche Park Chan-Wook potrebbe immaginare.
ma se non siamo in grado di renderci conto del successo che sta avendo, forse abbiamo sbagliato mestiere.
quindi qual è il problema?
il problema è che questa campagna verrà condivisa dai Salvini e dalle Roccella, mentre il purpose lo abbiamo inventato per noi.
ce lo stanno rivoltando contro, qualcosa ha smesso di funzionare.
ammettiamolo.
pretendere che catene della GDO, case automobilistiche o multinazionali dei soft drink dovessero insegnarci la vita con la loro pubblicità, è sempre stata un'idea del cazzo.
dovremmo semplicemente accettarlo, chiamare Sinek, sghignazzare con lui sulla quantità di cazzate che abbiamo venduto insieme in questi anni, farci una bella bevuta e passare oltre.
dovremmo, ma è un casino.
è un casino perché qui si tratta di valori, non solo di adv.
abbiamo preso master in copywriting, dobbiamo cambiare il mondo, non può finire così.
e allora via di dissonanza cognitiva:
“campagna che serve a poco nulla”
“brand affogato nelle lacrime”
“polarizzare un supermercato è folle”
“un insuccesso”
“non vende”
ci sono creativi con “30 anni di esperienza” che, davanti a un direttore marketing che per una volta non pensa solo short-term, uno che mette budget su un 90” di puro brand, uno al quale bisognerebbe fare una statua equestre solo per questo, volevano convincermi che la pesca “non vende” perché non dice quello quello che vogliono sentirsi dire.
eppure glielo abbiamo insegnato noi a prendere posizione, a connettersi sui valori.
e adesso che un supermercato di destra, in un paese di destra racconta una storia vagamente di destra per connettersi ai valori di un paese di destra, è una “campagna che serve poco o nulla.”
polarizza.
troppe lacrime.
sarà un insuccesso.
scusate, ma a un brand che ha negli asset i diritti di “falce e carrello” che cazzo volete che vi dica?
che il divorzio è bello?
che gli uomini sono tutti stronzi?
che tanto i “nostri angioli” non soffrono?
dai, piantiamola con le minchiate.
è l’occasione giusta, Sinek non se lo caga più nessuno.
piantiamola con i purpose, i love brand, le industry.
piantiamola di dire ai brand manager di spiegare alla gente come si vive.
sono pochissime le aziende che possono farlo e non sono le loro.
piantiamola di fare i sociologi, i preti, i politici e cominciamo a fare i creativi.
perché a noi il mondo non chiede di più, solo uno sforzo ecologico.
meno inquinamento mediatico, più campagne fantastiche.
e statue, ovviamente, tantissime statue equestri.
che chi mette soldi sul long-term, oggigiorno è un romantico temerario.
merita questo e altro.
I fischi di Gavino e l’enciclica contro il divorzio.
Da giorni i miei feed di Facebook e LinkedIN sono invasi da badge di persone che annunciano al mondo che faranno i giudici per un contest pubblicitario piuttosto che per un altro. Non sto parlando di decine di persone, ma di centinaia.
Questo per dire che ai creativi piace giudicare i lavori degli altri creativi. Io, nonostante sia l’unico creativo italiano che non ha mai preso parte a una giuria (lo dico con orgoglio), non sono esente dal fatto di criticare le campagne degli altri. È umano. Ma quando lo faccio critico quelle brutte, e con ironia. Credo però che quando esce una campagna che può essere importante per tutto l’ambiente vada aiutata. È così difficile fare pubblicità in Italia in questo periodo che non bisogna affossare un film che ha squarciato il velo della banalità pubblicitaria quotidiana.
Non condivido le critiche che ho letto di molti colleghi, anche se non me ne stupisco.
Un giorno, quando ero ancora studente all’Accademia di Comunicazione, andai alla premiazione di un concorso pubblicitario che non esiste più e che mi sembra di ricordare si chiamasse AD SPOT AWARD (il trofeo era stato scolpito da Armando Testa in persona e rappresentava ironicamente un limone, perché limone = invidia).
Il teatro era strapieno e a un certo punto salì sul palco Gavino Sanna per ritirare il premio per una delle tante campagne Barilla. Dalla platea, strapiena, partirono una selva di fischi assordanti, ma Gavino senza scomporre un capello del suo caschetto perfetto, ritirò il premio come se niente fosse. Dopodiché sorrise al pubblico.
Mi domandai perché sorridesse, l’ho capito solo molto tempo dopo.
Gavino pensava: “siete così presuntuosi che mi fate tenerezza: le mie campagne saranno ricordate molto più a lungo dei vostri fischi e delle vostre patetiche carriere. Continuate pure a non capire un accidente di quello che vogliono gli italiani, continuate pure a scimmiottare le pubblicità che fanno in paesi culturalmente diversi dal nostro”.
Aveva ragione lui. Perché la creatività è apertura mentale e per crescere come creativi ogni tanto bisogna riconoscere che c’è qualcuno più bravo di te. Qualcuno che è riuscito a fare una campagna rilevante. E puntare a raggiungerlo (quest’ultimo è un concetto che ho sentito dire da Bruno Bertelli in un’intervista).
Comprendo molto di più le critiche delle persone normali, anche se alcune le trovo buffe: “La pesca è fuori stagione”, “perché non pesa il frutto e non lo mette nel sacchetto” “pèsca o pésca”, “la pesca si usa come emoji nel sexting”.
Ok, tutto vero, ma è utile ricordarsi sempre che è una pubblicità, cioè finzione.
Le critiche che critico, invece, sono quelle strumentali, tipo “hanno dipinto la donna come una stronza perché non vuole tornare insieme a lui”, “è una pubblicità in linea con i dettami del governo in carica”, “è l’ennesima rappresentazione del patriarcato”.
Ma quella che mi ha colpito di più per mancanza di onestà intellettuale (almeno secondo me, eh) l’ho letta in un articolo di Vanity Fair intitolato Dal Mulino Bianco al Mulino Nero: ecco perché lo spot Esselunga sui genitori separati è ancora uno stereotipo. Riporto un estratto.
La tossicità di questa narrazione consiste nel considerare necessariamente drammatica una separazione che invece molto spesso coincide con una liberazione, con una decompressione nelle tensioni coniugali che (quelle sì!) si ripercuotono sulla serenità dei figli nel quotidiano.
Siccome molte persone con cui condivido Facebook hanno condiviso questo articolo, e perché vado sempre a controllare la fonti, vado a cercare il sociologo che ha scritto il pezzo ma scopro che l’autore, Leoluca Armigero, è uno studente di Giurisprudenza di 26 anni e che il motivo per cui scrive su Vanity Fair, molto probabilmente (spero di non dire un’inesattezza), è perché gestisce anche una pagina di 144.000 followers su Instagram: Aestetica Sovietica.
Anche questo è il bello della vita contemporanea: un influencer di 26 anni che esprime concetti sociologici affermando che il film è un’enciclica contro il divorzio.
Un’Enciclica contro il divorzio? Ma perché?
Ho letto la sua bio e le tematiche del canale sono importanti e apprezzabili: “Analisi sociale, linguaggio della politica. stereotipi di genere e rappresentazione delle minoranze”.
Ma cosa c’entrano queste tematiche con lo spot Esselunga? Dico davvero, senza ironia. Penso piuttosto che quelli che vedono sempre il marcio nelle cose è perché ce lo vogliono vedere, forse per dare forza alle proprie istanze, ma non è la via migliore per supportare i propri temi. Perché più che aprire un dibattito l’integralismo cristallizza le opinioni personali su posizioni dogmatiche e non serve a niente.
Insomma, non credo che abbiamo bisogno di encicliche papali della pubblicità ma neppure di editti talebani, scritti poi con un linguaggio che ai talebani farebbe invidia.
Per spezzare la serietà di questa edizione della mizionewsletter, ecco la nuova rubrica di Sara Palmieri che puoi seguire sia su Facebook sia su LinkedIN.
Si chiama SLAVE e riprende il messaggi che gli Schiavi le spediscono su Messenger.
Fresh Stuff
Data la lunghezza di questa edizione, sacrifico un po’ la rubrica dei FRESH STUFF. Solo 3 progetti questa volta.
L’ultimo commercial di Uber Eats in Australia si intitola Get Almost Almost Anything Period Romance ed è stato realizzato dallagenzia Special.
È uscito Get Him Back, il video musicale di Olivia Rodrigo. Cosa c’entra con questa rubrica? È stato girato in collaborazione con Apple, con un iPhone 15.
Lego esce con un corto di oltre 5 minuti, firmato dall’agenzia interna e da Droga5 Dublin. Interessante il cameo di Jane Lynch.
Ti ricordo come sempre che puoi vedere tutti i film della rubrica Fresh Stuff, più altri che qui non hanno trovato spazio, nel mio canale YouTube.
La playlist di questa edizione si chiama mizionewsletter #60.
E già che ci sei iscriviti al canale e attiva la campanellina 🔔, così ti arriva la notifica quando carico nuovi contenuti.
Chi sono.
Mi chiamo Mizio Ratti e faccio il copywriter da più di trent’anni.
Se questo non ti basta posso aggiungere che attualmente sono Direttore Creativo e Partner di due agenzie di comunicazione: Enfants Terribles e Hallelujah. Se poi hai un carattere stalker e vuoi saperne tutto su di me puoi trovare molto di quello che mi riguarda qui: linktr.ee/mizioblog
A me sorge un dubbio: ma il padre del parto Conad 2017 è lo stesso attore di Esselunga 2023? Sarebbe una curiosità interessante
Sì, Mizio, era necessario il tuo commento. Come sempre, d'altronde. Anche perché non conoscevo l'affilata stoccata di Chandler, lo spot Conad, la reazione di Sanna. Per cui, grazie. Dico una banalità. Quando ho visto lo spot non sono riuscito a pensare al divorzio, alla bimba, alla pesca, all'acting. Ho solo pensato: "cazzo, quel titolo (o insight) avrei voluto trovarlo io". Capita quando ti accorgi che le cose funzionano in un istante. Ed è una conferma del perché ci si è scelti questo lavoro, così effimero e bello. Ma c'è un passaggio in questa tua lucida analisi che ho vissuto con molta malinconia, ed è: "Quello che preferisco è quello ironico, scomparso purtroppo dalla circolazione perché in Italia tutti ormai si prendono troppo sul serio." Ma questa è un'altra storia. Saluti.